Una mostra allestita a Melbourne presenta una selezione di dipinti, sculture, disegni e installazioni in prestito dall’istituzione britannica. Il minimo comune denominatore è la luce, intesa sia come soggetto che come mezzo espressivo.
di Giulia Marani **
Importantissima in architettura, poiché investe gli spazi e ne modifica la percezione, la luce svolge un ruolo ancor più fondamentale nell’arte. Nel corso dei secoli è stata, per esempio, un fenomeno naturale difficile da rappresentare, e proprio per questo così stimolante, una variabile da tenere in considerazione nella pittura en plein air, uno strumento con cui fissare le immagini su carta fotografica o celluloide o ancora l’elemento chiave nel funzionamento di installazioni che si comportano come macchine sceniche, generando illusioni di grande impatto emotivo.
All’ACMI di Melbourne, punto di riferimento in Australia per tutto ciò che riguarda i linguaggi audiovisivi e la “screen culture” (alcuni mesi fa ha ospitato anche il Milano Design Film Festival in trasferta agli antipodi), una mostra ripercorre gli ultimi due secoli della storia dell’arte usando proprio la luce come filo tematico. Light: Works from Tate’s Collection, visitabile fino al 13 novembre, raccoglie oltre 70 capolavori in prestito dalla blasonata istituzione britannica, che oltre ai due spazi espositivi londinesi, la Tate Britain e la Tate Modern, può contare su antenne regionali a Liverpool e in Cornovaglia.
Il percorso curato da Kerryn Greenberg, ex responsabile delle mostre internazionali della Tate e attualmente parte del team curatoriale della prossima Biennale d’arte contemporanea di Gwangiu, ha come punto di partenza la prima metà dell’Ottocento, periodo in cui il lavoro degli artisti si nutre, a livello teorico, delle teorie sui colori e sulla visione di Newton e di Goethe.
Troviamo, per esempio, una serie di dipinti a olio di William Turner e di “diagrammi”, i disegni che il “pittore della luce” preparava per illustrare agli studenti del corso che teneva alla Royal Academy la capacità riflettente dei solidi, oltre a opere di John Constable e David Lucas. La varietà e la mutevolezza dei riflessi nell’acqua e l’impatto delle condizioni atmosferiche sulla visione sono al centro anche del celebre quadro di Claude Monet La Senna a Port-Villez (1884) e dei lavori di Alfred Sisley e Camille Pissarro, che illustrano il particolare rapporto degli impressionisti con la luce. Una simile attenzione alla resa dei bagliori acquatici si riscontra nella veduta della Manica dalle scogliere del Dorset dipinta dal paesaggista preraffaellita John Brett (The British Channel Seen from the Dorsetshire Cliffs, 1871).
Una rilettura della storia dell’arte attraverso il prisma della luce non può, naturalmente, prescindere dal Bauhaus: oltre ad avere dato al mondo lampade iconiche come la MT8 di Wilhelm Wagenfeld e Carl Jakob Jucker, la scuola fondata da Walter Gropius nel 1919 è stata la culla di importanti studi sulla percezione. Un bagaglio culturale che seguirà gli artisti e i designer coinvolti nell’insegnamento a Weimar, prima, e a Dessau, poi, nelle loro carriere successive spese in molti casi negli Stati Uniti.
László Moholy-Nagy, sperimentatore per eccellenza, gioca con i nuovi linguaggi della fotografia e del cinema e si pone la sfida di incorporare una sorgente luminosa in un artefatto artistico. Il suo Modulatore spazio-luce, protagonista del film Lichtspiel Schwarz-Weiss-Grau (1933), è una “scultura in movimento” che permette alla luce emessa da una serie di lampadine di danzare attraversando forme di diversi materiali, dall’acciaio al plexiglass. Josef Albers lavora per oltre un quarto di secolo, dal 1950 al 1976, sull’interazione tra campiture di colore all’interno di un quadrato ricercando, attraverso la ripetizione, infinite modulazioni di luce e tonalità.
A partire dagli anni Sessanta, artisti come James Turrell e Dan Flavin usano lampadine e tubi al neon come mezzi espressivi, dando vita a opere che trasportano il pubblico in una dimensione onirica. Raemar, Blue (1969) di Turrell inganna i sensi dell’osservatore creando l’illusione della bidimensionalità in uno spazio tridimensionale, mentre ‘Monument’ for V. Tatlin, parte di una serie di 39 sculture realizzate nell’arco di tre decenni, rende omaggio al progetto concepito dall’artista russo Vladimir Tatlin per la Terza Internazionale e rimasto sulla carta, ricreandolo in scala con una serie di tubi fluorescenti.
Tra le opere più spettacolari, in una selezione che tocca anche l’arte cinetica e la film art, ci sono i lavori di due giganti dell’arte contemporanea. The Passing Winter (2005) di Yayoi Kusama e Stardust Particle (2014) di Olafur Eliasson richiedono la collaborazione del visitatore per esprimere appieno il loro potenziale: la prima è una sorta di wunderkammer, un cubo di specchi forati che rimanda all’infinito il motivo caro a Kusama del punto, con sfumature di colore influenzate dal contesto; la seconda è una scultura nata dalle ricerche dell’artista sulla geometria complessa e formata da due poliedri irregolari in sospensione, uno dentro l’altro, che creano sulle pareti del museo giochi di luce e di ombre diversi a seconda delle condizioni ambientali e della posizione dell’osservatore.
Informazioni sulla mostra
Light: Works from Tate’s Collection, visitabile fino al 13 novembre, raccoglie oltre 70 capolavori in prestito dalla blasonata istituzione britannica, che oltre ai due spazi espositivi londinesi, la Tate Britain e la Tate Modern, può contare su antenne regionali a Liverpool e in Cornovaglia. ACMI, Fed Square Melbourne
** Courtesy: Salone del Mobile Milano.
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